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Poker di delitti - I parte

di Ornella Albanese
Romanzo breve
pubblicato su GIOIA

Peter Craig viveva da solo e la sua non era stata una bella morte, se la morte può essere bella in qualche caso.

Giaceva sul tappeto vicino al camino, con il viso contratto, il corpo irrigidito e le mani premute ad artiglio sul ventre. Non c’era nessuno in casa al momento della sua morte perché l’assassino aveva scelto la giornata di libertà del cameriere. Il telefono era staccato e sul tavolino c’era un vassoio con due preziosi calici di cristallo.

- Quindi è stato lei a trovarlo così, questa mattina, tornando a casa – riassunse brevemente il tenente Bruce Remick.

Il cameriere del vecchio Craig gli stava di fronte, un po’ rigido e con un’espressione di circostanza.

- Esatto, signore. Erano le nove, come ogni venerdì, e ho aperto con la mia chiave. E’ stata una cosa tremenda.

poker di delitti

- Il signor Craig aspettava visite, che lei sapesse? – chiese Remick.

- No, signore. Il signor Craig conduceva una vita molto ritirata. Aveva pochi amici, anziani come lui, e solo un nipote. Ma lui si faceva vedere di rado, e soltanto per chiedergli soldi, se mi posso prendere la libertà.

- Steve Craig? – chiese Remick, la fronte aggrottata.

- Sì signore – confermò il cameriere. – Lo conosce?

Remick annuì rapidamente, quindi uscì dalla stanza e poi dalla casa.

- Una brutta storia – disse a Bennet, il suo aiuto, che lo seguiva a un passo di distanza. Il coroner gli avrebbe mandato il referto in ufficio, ma anche un ragazzino avrebbe saputo riconoscere una morte per avvelenamento. Né era difficile immaginare che non si sarebbero trovate impronte su quei bicchieri.

Steve Craig, pensò Remick. Un giovane incapace, con pochi soldi, pochi scrupoli e un tenore di vita che non avrebbe potuto permettersi. Frequentava gli ambienti più esclusivi perché sembrava che il suo sguardo tenebroso seducesse le signore bene con una certa facilità. Steve Craig era l’unico che avrebbe tratto notevoli vantaggi dalla morte del vecchio zio, infatti avrebbe ereditato il cospicuo patrimonio di famiglia dando una svolta decisiva alla proprio vita.

- Convoca Steve Craig nel mio ufficio – disse Remick a Bennet. – Il più presto possibile.


Il giovane Craig era di fronte a lui, elegantissimo in un abito grigio, l’abbronzatura perfetta, il sorriso accattivante, le mani curate. Remick rilevò rapidamente quei particolari e pensò che gli sarebbe piaciuto inchiodare quell’inutile parassita con una prova inconfutabile. Invece in mano non aveva niente.

- La morte di suo zio le ha risolto un po’ di problemi, immagino – disse Remick, con un nervosismo insolito in lui.

- Praticamente tutti. – Il sorriso di Craig era disarmante.

- Per lei questa morte è stato un colpo di fortuna, allora.

- Può dirlo. Un colpo di fortuna, per quanto possa essere stato affezionato al vecchio.

- E immagino che ieri sera lei se ne sia stato in casa da solo e quindi non sia in grado di fornire un alibi. – Il tono di Remick era stato forse eccessivamente duro e Craig lo guardò con espressione indecifrabile.

- Lei ce l’ha con me per via di Gena, tenente?

Remick non batté ciglio nonostante la domanda lo avesse colto di sorpresa. In effetti era così. Detestava quel manichino vanesio perché corteggiava Gena in modo insistente. E perché lei, nonostante rifiutasse i suoi inviti, non lo trovava in fondo del tutto antipatico.

- Niente affatto – mentì in tono brusco. – Sul lavoro non mi lascio influenzare da valutazioni personali. Senza contare che Gena non è la mia ragazza. Ci è capitato di uscire insieme qualche volta e questo è tutto. Stavamo parlando del suo alibi, se non sbaglio.

- Ieri – disse Steva Craig con tono annoiato, - sono stato dai Budd tutta la giornata. Ho pranzato, giocato a tennis col ragazzo e conversato con la signora. Dopo cena sono tornato a casa. Trova il mio alibi di suo gradimento, tenente Remick?


Remick tornò nella sala dove era stato ucciso il vecchio, sedette in poltrona e si fumò quietamente una sigaretta. Continuava a guardarsi intorno senza fretta, cercando qualcosa che non aveva notato e che pure avrebbe dovuto esserci. Era impossibile che l’assassino non avesse lasciato neppure una traccia. Era entrato dalla porta principale dopo aver suonato il campanello, il vecchio Craig lo aveva ricevuto in sala e gli aveva offerto da bere. Poi l’altro aveva trovato il modo di far scivolare il veleno nel bicchiere del vecchio, quindi aveva atteso tranquillamente la sua morte. Tutto questo senza lasciare un’impronta o il minimo indizio. Un lavoro sicuro, pulito, da professionista. O da persona con i nervi d’acciaio.

Il cameriere si affacciò nella sala in cappotto e cappello.

– Sto andando via, tenente – lo avvertì. – Le farò sapere il mio nuovo indirizzo. Ho sempre servito signori di gran classe e quindi non ho più niente da fare qui.

Evidentemente non riteneva il nuovo proprietario all’altezza dei suoi servigi.

- Quei bicchieri – disse Remick trattenendolo. – Quei bellissimi bicchieri sul vassoio. Il signor Craig li usava abitualmente?

- No, signore. Si tratta di pezzi d’antiquariato, di grande valore. Solo se aveva ospiti di riguardo.

- Allora deve essere stato un ospite di riguardo a ucciderlo. Cosa intende lei per ospiti di riguardo?

- Persone di classe, direi, non necessariamente ricche o potenti. Oppure una bella signora. Il signor Craig è sempre stato molto sensibile al fascino femminile.

Una bella signora. Mentre metteva in moto l’auto, Remick pensò senza convinzione che avrebbe fatto un’indagine sulle donne che Steve Craig frequentava.

In ufficio, Remick trovò Bennet che aveva appena ricevuto una telefonata. Bennet era un uomo sicuro ed efficiente, molto giovane nonostante avesse quasi tutti i capelli bianchi, in piacevole contrasto con la sua faccia liscia e l’espressione da ragazzo. Remick lavorava con lui da un anno ed erano entrati subito in sintonia, si capivano al volo senza bisogno di troppe parole.

- Un uomo ucciso da una revolverata al 2 di Barfin Street – gli comunicò Bennet appena lo vide. – Un certo Amos Lee. Ha telefonato sua moglie un secondo fa.

Senza una parola Remick si riallacciò la giacca e uscì di nuovo in strada.


Pochi minuti più tardi erano nella villetta a due piani di Amos Lee. La signora Lee era livida in viso e aveva gli occhi rossi di pianto.

– Sono stata via tutta la mattina – disse. – E quando sono tornata… - Non riuscì a continuare. Si limitò a guidarli fino allo studio del marito e poi rimase fuori in attesa.

Amos Lee era accasciato sulla scrivania e aveva un revolver nella mano destra. Si era sparato un colpo in faccia.

Remick tornò dalla signora Lee.

- Suo marito ha lasciato qualcosa? Non so, un biglietto, una lettera?

- No – rispose lei con voce dura. – Non vedo perché avrebbe dovuto scrivere qualcosa prima di farsi ammazzare.

- Ammazzare? Qui tutto fa pensare a un suicidio, signora.

Gli occhi della donna lampeggiarono. – Se fossi in lei, tenente, ci penserei su prima di passare alle conclusioni. Mio marito non aveva segreti con me. Domani sarebbe stato il mio compleanno e aveva già prenotato un tavolo da Tim’s, può controllare. Era felice in casa e sul lavoro, perché avrebbe dovuto uccidersi?

Eppure un motivo c’era. Remick ne venne a conoscenza parlando con George McGregor, il titolare della ditta presso la quale lavorava Amos Lee.

- Si tratta di un grosso ammanco – aveva detto l’uomo in tono severo. – Un ammanco davvero grosso. L’ho scoperto ieri sera e ho subito convocato Lee per oggi. Era il mio direttore amministrativo e pensavo di discuterne con lui. Ora questo suicidio arriva proprio come un’ammissione di colpa.


Remick si chiuse alle spalle la porta di casa e accese la luce. Era stanchissimo e aveva voglia solo di una serata rilassante davanti alla tivù. Invece aveva appuntamento con Gena.

- Perché non vieni a casa mia? – le disse al telefono. – Sono stanco e ho voglia di stare tranquillo.

- Ma io ho quei due biglietti per il concerto, ricordi? – gli rispose Gena. – Ho fatto una coda infinita per averli.

- Sono troppo stanco – disse Remick, con un tono che non ammetteva repliche. – Ho avuto una giornata dura e quindi la sera non riesco a essere smagliante come certi damerini di tua conoscenza.

Gena si mise a ridere. – Se continuo a uscire con te, nonostante il tuo caratteraccio, significa che ti preferisco a quei damerini. A che ora vuoi che venga?

Remick si rilassò, Gena riusciva sempre a disarmarlo. Era tenera quanto lui era duro, luminosa quanto lui era cupo. Era come un raggio di sole nella sua vita piena di ombre.

– D’accordo per quel concerto – acconsentì allora, di buon grado. – Passo a prenderti alle otto.

Gena aveva lineamenti perfetti e lisci capelli color miele che le coprivano appena le orecchie. A Remick piacevano i suoi occhi dorati, il sorriso luminoso, il lungo passo morbido, l’assoluta mancanza di civetteria. Praticamente gli piaceva tutto di lei.

Quella sera era splendida, in abito di seta azzurra e pelliccia. Remick non rimpianse di essere uscito perché camminare accanto a Gena lo riconciliava con la vita. I loro due mondi erano diversi, ma lei mostrava di preferirlo a tutti i suoi amici bene e non sembrava solo il capriccio di una ricca ragazza annoiata. Anche perché Gena era tutt’altro che una ragazza annoiata, aveva mille interessi e mille entusiasmi.

Il concerto cominciò, ma Remick aveva troppe idee per la testa e la musica finì per essere solo un sottofondo ai suoi pensieri.

Quando furono di nuovo in auto, Gena gli chiese: - Sei arrivato a qualche conclusione, allora? Non sei stato certo in sala ad ascoltare quel concerto.

- Ho due dannati casi per le mani – disse Remick, accendendosi una sigaretta. – E non riesco a non pensarci. O forse dovrei dire un caso. L’altro ha tutte le carte in regola per essere archiviato come suicidio.

- Un caso? Quello dello zio di Steve? – chiese lei. – Steve mi ha detto che avevi tutte le intenzioni di sottoporlo a un terzogrado.

Remick fece un mezzo sorriso sarcastico. – Ha già trovato il tempo di comunicartelo?

- Mi ha telefonato dopo la tua convocazione. Era agitatissimo. Fortunatamente, mi ha detto, era in grado di dire come aveva passato la giornata. – Gena sorrise. – Mi ha anche detto che sei un tipo che non scherza e che sembri avercela con lui.

- Io non ce l’ho con nessuno – puntualizzò Remick, innervosito . – Faccio solo il mio lavoro e in questo caso lui è l’unico indiziato.

- Perché te la prendi? – sorrise Gena. – E poi non capisco come mai con te si debba finire sempre col parlare di lavoro.

- Forse perché noi due non abbiamo nessun interesse in comune - le spiegò lui con una certa durezza - e quindi nessun argomento di conversazione che coinvolga entrambi. Veniamo da due pianeti diversi e mi chiedo per quale motivo continuiamo a frequentarci. A parte una certa attrazione fisica, intendo.

Il viso di Gena si era irrigidito. – Se la pensi così è possibile che sia vero – disse, gelida. – Mi accompagni a casa? E’ piuttosto tardi.


Remick si spogliò nervosamente e si infilò sotto il getto tiepido della doccia. Poi, in accappatoio, andò a sedersi davanti al televisore e allungò una mano verso la bottiglia di whisky.

Era decisamente furioso perché non avrebbe voluto litigare con Gena. Era difficile da ammettere, ma era innamorato di lei e geloso come non lo era stato mai di nessuna donna.

Si versò del whisky e bevve adagio, malvolentieri. Il suo dannato mestiere e il suo carattere duro gli rendevano difficile qualsiasi legame un po’ più profondo delle solite storie senza importanza. C’erano molte donne che uscivano volentieri con lui, ma avere tante donne era come non averne nessuna, e in ogni caso non sarebbe riuscito a tenersi l’unica a cui teneva davvero.

E poi c’erano quei due casi dannati che non gli davano tregua. Si addormentò in poltrona e solo all’alba si alzò indolenzito e andò a infilarsi sotto le coperte.


La mattina dopo Remick si svegliò con la testa pesante e la bocca arsa, ci volle un po’ perché il cervello gli si snebbiasse. Fece un salto in ufficio e poi tornò a trovare la signora Lee.

- Ieri l’altro è stato scoperto un ammanco nella ditta di suo marito – le disse. – Ne sapeva qualcosa?

- Sì – annuì la donna. Era ancora molto pallida e con gli occhi cerchiati. – Amos me ne aveva parlato.

- Allora lei sapeva…

- Certo. Amos aveva scoperto l’ammanco già da un po’ e ne aveva parlato col responsabile. Non voleva denunciarlo, si conoscevano da tanti anni. E poi il signor Powell aveva promesso di restituire la somma entro pochissimi giorni.

- Il signor Powell?

- Malcom Powell. Un uomo mite, rispettoso, una persona a posto, insomma. Doveva essere disperato per osare una cosa del genere.


- Quella donna è una pazza!! – esclamò Malcom Powell con espressione minacciosa. – Capisco che voglia proteggere la memoria del marito, ma qui si tratta di un gioco pericoloso. Potrei anche denunciarla per diffamazione.

- E’ in grado di fornirmi un alibi, signor Powell? – chiese Remick seccamente. L’uomo gli sembrava tutt’altro che mite e rispettoso.

- Per l’altro ieri, intende? Sicuro. L’altro ieri a che ora? D’altra parte sono stato tutto il giorno a caccia con due amici. Tony Forrest e suo cognato. Loro possono confermare.


Remick tornò a casa in preda a un groviglio di pensieri che non riusciva a districare. Da due giorni vedeva solo persone che avevano a che fare col suo lavoro, si stava dibattendo in un bel dilemma senza riuscire a trovare niente che somigliasse a una soluzione.

- Basta – pensò. – Ho bisogno di una boccata di ossigeno.

Aveva preso il telefono con la voglia di chiamare Gena, poi invece aveva fatto il numero di Denise che non vedeva da un po’ di tempo.

Denise arrivò col solito ritardo perché riteneva che una donna dovesse sempre farsi aspettare per essere più desiderata. Era bella e in tiro come sempre, ma Remick trovò subito insopportabili i suoi atteggiamenti sexy e il suo tono flautato. Una volta l’aveva trovata piacevole, ma forse qualcosa in lui era cambiato.

Il fatto era che continuava a fare confronti e per qualsiasi donna era difficile competere con Gena.

Le porse il cocktail che aveva preparato, sedette sul divano accanto a lei e le sorrise. Dopotutto era la donna giusta per un serata rilassante, senza complicazioni.

In quel momento squillò il telefono.

- Ciao, mi odi ancora? -

Era la voce di Gena.

Ti amo invece, avrebbe voluto rispondere lui, se non fosse stato del tutto incapace di pronunciare frasi del genere.

- No – rispose brusco. – Impossibile odiarti. Come stai?

- Triste e sola. Ci vediamo oppure hai impegni?

Lui lanciò un’occhiata a Denise che gli volgeva le spalle, ferma davanti allo scaffale dei dischi.

- Posso liberarmi – disse in fretta.

Diede a Denise i soldi per il taxi, tanto lei non era tipo da prendersela. Gli disse soltanto, con appena una punta di veleno nella voce: - Hai trovato anche tu la donna che ti fa correre, Bruce. Capita a tutti, prima o poi.

Remick non batté ciglio, ma poi si sorprese a correre davvero verso il posto dell’appuntamento.

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