Un pesante rumore di passi annunciò l’ingresso di Uberto e dei due monaci. Il secondo dei due, quello che Irene non conosceva, entrò per primo con lunghi passi decisi. Il cappuccio ombreggiava un viso dai lineamenti volitivi, vagamente familiare.
- Mio Dio - gemette Irene, riconoscendolo.
Ecco lì, davanti a lei, l’uomo che avrebbe dovuto salvarli, Evandro di Cerrano. Irene rimase a osservarlo impietrita dallo stupore e dalla delusione. Aveva immaginato ben diverso l’arrivo dell’uomo dei suoi sogni. Lo aveva immaginato con un’armatura scintillante, in sella a un possente destriero, alla guida di un esercito numeroso e ben armato. Invece era arrivato in groppa a un misero mulo, pavidamente travestito da frate, col viso seminascosto dal cappuccio. La ragazza non riusciva a credere ai propri occhi.
- Sono qui per sposare vostra figlia Irene - disse, rivolgendosi a Uberto. - E’ l’unica possibilità che ci resta perché questo feudo rimanga ai Montalto. Potremo reclamarlo per diritto di sangue, dal momento che per diritto d’armi spetterà senza alcun dubbio ad Alessandro di Iesi, il bastardo.
- Cosa diavolo state dicendo? - lo interruppe Uberto, lo sguardo offuscato dall’ira. - Questo feudo spetta soltanto a mio figlio Lorenzo, per diritto di sangue!
- Non più, signore - obiettò l‘uomo con durezza. - Vostro figlio è morto in battaglia a poche miglia da qui e il vostro esercito è stato decimato. Anche il mio farebbe la stessa fine se avessi la temerarietà di affrontare le truppe che vi assediano... - Si interruppe e osservò il viso terreo dell’uomo che aveva davanti. - State bene, signore? - si informò con fredda cortesia.
- Gli avete appena comunicato la morte del suo primogenito - disse allora Irene, facendo un passo avanti e avvicinandosi a suo padre. Anche lei era sconvolta. Quell’uomo aveva riferito con incredibile noncuranza una notizia terribile. La morte del figlio prediletto di Uberto, il suo adorato fratello Lorenzo. E, con la sua, anche la morte di ogni speranza di salvezza.
Costanza piangeva piano, ancora in piedi, immobile nel centro della stanza. Il viso di Caterina era impenetrabile, solo appena più pallido di pochi minuti prima. Irene vide la mascella di suo padre tendersi e poi rilassarsi, tendersi e rilassarsi di nuovo. Stava piangendo, senza lacrime, il figlio morto in battaglia.
- Adesso andiamo nella cappella. E’ necessario che frate Berardo celebri al più presto il nostro matrimonio. - Evandro si rivolse a Irene e la guardò, per la prima volta da quando era entrato nella stanza. - Siete una donna molto bella e sono davvero impaziente di essere vostro marito - disse, con voce improvvisamente diversa, non più dura e secca, ma piena di calore.
La ragazza si inumidì le labbra. Il suo pensiero non era lì, ma al corpo straziato e senza sepoltura di suo fratello, su un campo di battaglia che lei non sapeva neppure dove fosse. - Vorrei che prima si provvedesse alla sepoltura di Lorenzo - bisbigliò.
- Allora non avete capito quello che ho detto, Irene. - Ecco di nuovo il tono duro e imperioso. - Dobbiamo sposarci prima che quei cani entrino qui dentro. Credete davvero che ce lo lasceranno fare, dopo?
- Andiamo nella cappella - disse Caterina, alzandosi e avviandosi per prima.
Irene avvertì la mano di Evandro stringerle il braccio e si ritrovò a camminargli al fianco, cercando di seguire il ritmo del suo passo lungo e veloce. Frate Berardo caracollava dietro di loro.
Arrivarono alla cappella in pochi minuti. Solo quando furono davanti all’altare, Evandro allentò la presa sul suo braccio e poi la lasciò libera. Irene lo guardò accigliata.
Quell’uomo vestito da frate al suo fianco le faceva uno strano effetto. E poi stava accadendo tutto troppo in fretta. Si girò indietro, ma non vide suo padre. Caterina invece era già al posto d‘onore. L’abito di velluto color porpora che indossava, con una cintura di filigrana d’oro a cingerle i fianchi, sembrava adatto a un matrimonio. Molto di più del modesto vestito che lei aveva infilato in fretta quella mattina. Si ricordò con orrore che non si era neppure pettinata. I suoi lunghi capelli in disordine dovevano conferirle un aspetto selvaggio. Arrossì, cercando di spingerli indietro con entrambe le mani.
Ma dovette fermarsi perché frate Berardo aveva già cominciato a pronunciare le formule di rito. Di nuovo, Irene si girò in cerca di suo padre.
- State ferma - le intimò Evandro, a denti stretti.
Lei si immobilizzò, ubbidiente. Ma dentro di sé un tumulto di emozioni contrastanti le impediva di seguire cosa il frate stava dicendo.
E poi non avrebbe mai creduto che si sarebbe sposata così, coi capelli che le coprivano le spalle in onde scomposte e quel vecchio vestito marrone. Avrebbe dovuto indossare l’abito di broccato che era appartenuto a sua madre, la sua vera madre, la donna bellissima e bionda che era morta nel dare alla luce Costanza.
Con uno sforzo, cercò di concentrarsi sulle parole di frate Berardo. Ma di nuovo qualcosa intervenne a distrarla. Uno strano rumore lontano, un rumore metallico. Sembrava lo scorrere di una catena in un ingranaggio...
Irene sussultò. Mio Dio, inorridì, qualcuno stava forse abbassando il ponte levatoio?
- Dovete rispondere, Irene. - La voce impaziente di Evandro si sovrappose al rumore. - Dovete dire “lo voglio”.
- Zitto! - sibilò lei, in allarme. - Non è il rumore del ponte levatoio? E mio padre dov’è?
Evandro le afferrò una mano. - Perdio, Irene, volete rispondere alla dannata domanda?
Lei lo guardò stranita, poi si svincolò con forza dalla sua presa. - Qualcuno sta abbassando il ponte! - disse, quasi volando fuori della cappella.
Schiumante di rabbia, Evandro le corse dietro. - Tornate qui. Non capite che se entrano nel castello non potremo più... - Il resto delle sue parole fu coperto dall’urlo straziante di Irene.
Il ponte levatoio era stato davvero abbassato e tre cavalieri lo stavano percorrendo diretti all’esterno. Nonostante fosse di spalle, quello che cavalcava pochi passi avanti agli altri era chiaramente riconoscibile. Si trattava di Uberto di Montalto.
Con un balzo, Evandro si avventò su Irene e riuscì a impedirle di correre dietro al padre per tentare di fermarlo. La tenne stretta contro di sé, mentre lei continuava a dibattersi in preda al panico e alla disperazione. Solo quando finalmente la ragazza si acquietò contro la sua spalla, Evandro allentò la presa. - Calmatevi, adesso. Calmatevi, capito? Non potete correre dietro vostro padre come una bambina spaventata.
Lei annuì lentamente, cercando di ricomporsi. Poi, senza una parola, si liberò dall’abbraccio e corse verso la scala di pietra che conduceva ai bastioni. Da lì avrebbe potuto seguire quello che sarebbe accaduto. Di certo suo padre era uscito per parlamentare di persona. Il suo mantello blu sventolava e l’elmo argenteo splendeva al sole. Nessuno avrebbe mai detto che quel cavaliere dal portamento fiero, che lanciava il cavallo al galoppo per affrontare un intero esercito nemico, fosse un uomo ormai vecchio.
Uberto si fermò a pochi metri dal guerriero vestito di nero. Lui non era più a cavallo, ma facilmente distinguibile perché molto più alto di tutti gli altri. La voce del vecchio suonò forte e chiara e il vento la portò fin sui bastioni. - Sono Uberto di Montalto. Non sono venuto per parlamentare, ma solo per porvi una domanda. Chi tra di voi ha ucciso mio figlio Lorenzo in battaglia?
Ci fu un lungo istante di silenzio prima che il cavaliere muovesse un paio di passi verso di lui, lasciandosi indietro gli uomini con cui stava parlando. - E’ toccato a me questo onore, Uberto di Montalto. Vostro figlio si è battuto con grande coraggio e la sua spada si è macchiata anche del mio sangue. - Si indicò il braccio. - Potete essere orgoglioso di lui.
- State in guardia, signore. Uccidendo mio figlio, voi avete ucciso anche me, negandomi una discendenza diretta. Non c’è perdono per quello che avete fatto.
Con un senso di sbigottita ineluttabilità, Irene vide suo padre sguainare la pesante spada e brandirla contro il cavaliere.
Lui rimase immobile. - Non incrocerò la mia spada con la vostra, signore. Non in questo modo. Leggo nei vostri occhi che volete morire. Mi dispiace, ma non sarò io a compiacervi.
- Mi batterò con voi anche se siete un bastardo. Non vi basta? - Uberto guardò con disprezzo lo scudo dell'uomo, un lupo nero su campo rosso, tagliato dalla banda di bastardaggine. - Verserò il vostro sangue come voi avete versato quello del mio primogenito.
- Tornate in voi, vecchio. - La voce del bastardo suonava ferma e controllata. - Niente riuscirà a restituirvi vostro figlio. Apprezzo il coraggio che dimostrate, ma adesso basta. Avrete l’onore delle armi e sarete trattato con il rispetto che vi siete guadagnato facendo...
Un urlo potente e arrochito lo interruppe. Uberto spronò violentemente il cavallo che puntò dritto contro il nemico. La pesante spada non tremava nel suo pugno e l’urlo risuonò per l’intera durata del breve tragitto.
Tutto accadde così velocemente che Irene quasi non riuscì a capire. Il cavaliere vestito di nero si era posto davanti a suo padre, le gambe ben piantate, pronto a bloccare a mani nude la corsa del cavallo. Ma l’urlo del vecchio si interruppe con una specie di gorgoglio strozzato. Uberto si ripiegò su se stesso e scivolò a terra, rimanendo impigliato con un piede nella staffa e rallentando l’impeto del cavallo. Il suo avversario poté così afferrare la bestia per il morso e porre fine alla sua corsa.
Irene si portò le mani alla bocca per impedirsi di urlare. - Mio Dio - balbettò poi. - E’ caduto da cavallo. Potrebbe... potrebbe aver battuto la testa.
- Vostro padre è ferito, Irene. Forse è già morto - disse Evandro con voce cupa. - Ha un pugnale piantato in mezzo al petto.
- Vi sbagliate! - lo contraddisse lei con veemenza. - Il bastardo non aveva armi in mano.
- Non è stato lui, infatti. E’ stato l’uomo alla sua destra.
- L’uomo alla sua destra? Quale? - La ragazza era così agitata e in preda alla confusione che non capiva dove dovesse guardare.
- Quello col turbante rosso - precisò Evandro. - Gli ha lanciato contro un pugnale. Un gesto davvero fulmineo. Per questo vostro padre è caduto.
Irene sbatté le ciglia, completamente scioccata. Poi trasalì. - Mio Dio, vengono verso il castello. Stanno entrando qui dentro! - Aveva la voce incrinata e stava cominciando a tremare.
Evandro la prese per le spalle e la scrollò forte. - Calmatevi, adesso. Dobbiamo escogitare subito qualcosa, se volete che questo feudo rimanga ai Montalto. Non siamo ancora sposati, dannazione.
Senza più un attimo di indugio, l'uomo l’afferrò per un braccio e la trascinò verso le scale. Lei fu costretta a corrergli accanto, inciampando per adeguarsi alla corsa di lui. Scesero le scale di volata ed entrarono nel mastio proprio nello stesso istante in cui i nemici cominciavano a percorrere il ponte levatoio.